SERGIO GILARDINO
"America! America!"
Fotografia di Davide Vella
L’autunno, non quello con le foglie dorate e i cieli tersi, ma quello vercellese, umido, nebbioso, freddo, arrivò presto quell’anno. In casa avevamo un televisore che preferiva proiettare sullo schermo la nebbia che c’era fuori invece che immagini intellegibili. L’unico svago, il sabato sera, era andare al cinema: c’erano i cinema Italia, Astra, Viotti, Corso, Civico e Verdi. Quella
sera, con la nebbia anche in città, così fitta che si sarebbe potuta “tagliare con un coltello”, l’unica pellicola che mi sarebbe piaciuto vedere era al Civico, proprio di fronte alla Lanino. Il famoso teatro lirico, declassato a sala cinematografica, chissà per quale ragione quella sera non era aperto.
Sarà stato per la storia dell’asino … [Pochi anni prima, per obbligo d’antica grandeur, i fiduciari di quella prestigiosa istituzione si erano fissati di rappresentare Sansone e Dalila di Camille Saint-Saëns, con una penuria tale di soldi da grattare il fondo delle padelle. L’orchestra era raccogliticcia e il personale di servizio meno che affidabile. Per l’apocalittico finale – quando il tenore avrebbe appoggiate le mani a braccia tese contro le due colonne centrali – che erano tubi di cartone pieni di borotalco, tanto per far un polverone da non vederci più – il “tempio” sarebbe crollato. I violini striduli e i violoncelli imbufaliti avrebbero tentato di raggiungere il volume della Wiener Symphonische Orchester nelle battute conclusive della Cavalcata delle Walkirie. All’ultimo momento, il nonagenario e denutrito sacrestano della parrocchia di Sant’Antonio, dietro l’angolo del Civico, aveva avuto la poco tempestiva idea di passare a miglior vita, talché il delicato incarico di far crollare il mondo passò all’ubriacone di turno, certo Borasini Celio, con un sacco di raccomandazioni, soprattutto quella di non bere ulteriormente per non precipitare giù dal soffitto sulle corna del malcapitato Sansone.
Mi indispettì il fatto che avessero organizzato una riunione per studenti della mia età senza che la direzione ci avesse detto niente. Della mia scuola io ero il solo. Ebbi un impulso di gratitudine per l’asino. Al tavolo, in capo alla sala, erano già seduti quattro o cinque ragazzi e ragazze. Tra il pubblico rimanevano pochi posti vuoti. Io ero stato uno degli ultimi ad entrare.
In sostanza questa American Field Service cercava ragazzi e ragazze “idonei” da mandare in America per un anno. Avrei subito pensato che si trattava di una bufala non ci fossero stati quei coetanei al tavolo, ciascuno dei quali raccontò la propria esperienza. Erano tutti e tutte molto spigliati nel parlare in pubblico. Erano decisamente parte di quegli “idonei” di cui fecero parola poco più tardi. Chi faceva domanda veniva invitato ad un primo colloquio (a quel tempo all’USIS, United States Information Service, l’istituto culturale americano a Torino) poi, se entrava nella rosa dei migliori, ad un secondo colloquio. Se veniva scelto, partiva un mese dopo la fine dell’anno scolastico e se ne stava da qualche parte negli USA per un intero anno, in una famiglia americana, con un figlio o una figlia della stessa età, che fungeva da “fratello/sorella” per tutto l’anno scolastico.
La cosa mi parve irrealizzabile, per me, a quell’epoca. In casa non avevamo mezzi, poi l’America mi pareva così lontana … In quegli anni non si viaggiava come oggi. C’erano gli aerei, ma si andava oltreoceano soprattutto via mare, con una nave. Gli emigranti, quasi sempre, non tornavano o, se tornavano, era dopo una vita spesa a lavorare e a risparmiare quattro soldi per comperare una casa e un po’ di terra in paese.
Al colloquio c’erano più di cinquanta ragazzi e ragazze, da ogni parte del Piemonte. Eravamo tutti assiepati nel bel cortile di un palazzo signorile in piazza San Carlo. Ci chiamavano ad uno ad uno. L’addetto culturale mi fece domande sull’economia della mia zona, il vercellese, sul parlamento italiano, sul tipo di studi che facevo, sullo sport, alternando l’italiano all’inglese.
Dopo due settimane ricevetti un secondo invito. Cominciavo ad avere paura. In casa non avevo fatto parola di questa mia “folairà”. Ma ero arciconvinto che, nonostante il secondo invito, non sarei andato oltre la barriera finale.
Al secondo colloquio eravamo in sette. Due settimane dopo arrivò il responso: sarei partito per la California all’inizio di luglio. Tra i fogli di istruzioni c’erano anche il nome e le fotografie della mia famiglia americana.
Mi girava la testa. Adesso non potevo non dirlo alla mamma. Lo dissi prima ad Angelo.
Freddo, impassibile, forte davanti a tutte le prove che il destino fino ad allora ci aveva mandate, ci pensò sopra qualche istante, poi mi disse: “Bene, questo è bene per te. Ti cambierà la vita.
Prepariamo quel che va preparato.” Non una parola in più.
Da tempo si era preso sulle spalle il ruolo di capofamiglia e le decisioni più importanti le adottava con calma, ma con risolutezza, non senza battibecchi e rimostranze da parte della mamma, che lo considerava sempre “ën fabiòch”. Era tutto dire, ma se mai c’era un braccio di ferro chi la spuntava era Angelo, anche se di bracci di ferro, in verità, ce n’erano stati pochissimi.
“Vai a dirlo alla mamma …”, mi disse poco dopo.
Eh, sì, come se fosse stata una cosa da niente.
“Mama, i vaggh n’America …”
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Un amico mi portò al consolato americano a Torino, rientrai a Vercelli per le 13 e un’altra macchina era pronta per portarmi alla stazione centrale di Milano.
Arrivai quando il gruppo degli studenti AFS di tutta Italia – un centinaio – stava salendo in treno.
Erano, come i giovani alla conferenza presso la Lanino, ragazzi e ragazze molto in gamba, ben preparati, simpatici. Stringemmo subito amicizia e, mentre il treno attraversava mezza Europa, passammo la notte cantando e scherzando, fino all’alba, che ci colse assonnati e rauchi di voce, a un passo dal porto di Rotterdam, dove ci aspettava la nave che avrebbe trasbordato sull’altra sponda, davanti alla statua della libertà, mille e duecento giovani dell’Europa libera.
L’avventura americana era incominciata. Sorvolai nel mio primo viaggio in aereo l’intero continente americano, da Ellis Island alla baia di San Francisco, quando ancora il sole non era calato sul Golden Gate.
Mio fratello, senza dirmi una parola, impiegò un anno a restituire la cifra imprestata e devo a lui se ricevetti il visto necessario in barba all’ incompetenza dei burocrati.
America! America!
God shed His grace on thee
And crown thy good with brotherhood
From sea to shining sea!
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Era il 1962. Io avevo sedici anni. Studiavo lingue straniere all’istituto Bernardino Lanino.
Angelo ne aveva venti e lavorava presso la ditta Manzoni. Stentava non poca fatica a conciliare il lavoro tedioso con l’ormai ben radicata vocazione musicale. Suonava già da virtuoso, anche se non aveva avuto veramente alcun maestro. Dava piccoli concerti privati. La sua reputazione si stava rapidamente consolidando: nessuno nella nostra piccola città aveva mai sentito suonare, dal vivo, come si deve, un chitarrista classico e quello che Angelo, già allora, cavava dalla sua chitarra lasciava a bocca aperta i ristretti circoli musicali: aveva nel suo repertorio non solo Sor e Carulli, ma anche Tarrega e Villa Lobos (mi ricordo, così, a primo acchito, di quei nomi, ma ce ne saranno stati senz’altro diversi altri).
A casa, la sera, si sentivano distintamente tre fonti sonore, l’una completamente impassibile alle altre due: Angelo che ripeteva le stesse battute per la decima o la ventesima volta, inseguendo la perfezione, la mamma che cuciva e si lamentava ad alta voce del carovita (“a l’é gnì tut car mè ’l feu, s’i andoma anans parèj mi sai pròpi nen cmé ch’i faroma …” [“è diventato tutto caro come il fuoco, se andiamo avanti così proprio non so come faremo …”]) e io che, in assenza di registratori vocali, recitavo brani in lingue straniere con la testa contro uno spigolo del muro per sentire meglio la pronuncia rimbalzata dalle pareti convergenti ad angolo retto.
Si andava a dormire presto (“la luci a costa n’euj ëd la testa!” [“la luce costa un occhio della testa!”]). Dopo aver spento l’unica lampadina in cucina, Angelo continuava a recitare a memoria lo spartito appena lasciato sul leggio, la mamma a pensare “cmè ch’i l’avrìo fàit” e io a pronunciare a labbra chiuse le parole straniere che avevo appena lette, rendendomi fin troppo ben conto che erano lungi dall’essere perfette.
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Quest’ultimo, mai avvisato, ebbe la pessima ispirazione di appoggiare le mani sulle due colonne non alla fine – come previsto – bensì all’inizio dell’opera. E la grandiosa performance ebbe termine lì, perché il Celio tirò la corda della catastrofe e per poco non ammazza l’attempato Sansone, che non fece in tempo a scansarsi del tutto … L’episodio divenne noto come “la storia dell’asino”, dal nome di un altro fiasco formidabile, quello della marcia trionfale dell’Aida, anche quella finita in un mare di risate)].
Quando il Civico non era aperto si diceva: “Sarà per la storia dell’asino”. E quella era una sera da “storia dell’asino”.
In preda al disappunto all’essere privato dell’unico svago settimanale (era troppo tardi per arrivare in tempo ad uno degli altri cinema), mi voltai per ritornare in piazza Cavour, dove abitavamo.
Il salone a pian terreno della Lanino era illuminato a giorno. Strano, che cosa poteva mai esserci da accendere i due grossi lampadari? Stavo per passare oltre l’entrata che varcavo ogni giorno di scuola, quando un ragazzo e una ragazza, più o meno della mia età, si fecero avanti e mi chiesero: “Perché non vieni a sentire la presentazione dell’American Field Service?”.
Io non sapevo che cos’era, ma quelle tre parole inglesi, per quel poco d’inglese che io sapevo allora, le avevano pronunciate bene, meglio di quelle che io blateravo contro le pareti di casa. “Beh, tanto che ho da perderci?” mi sono chiesto, “stavo per andare a casa e rimettermi a studiare … tanto vale che entri qui a sentire che storia ci raccontano.”
A presentazione finita, rassegnato al mio ruolo di “giocatore non qualificato”, stavo per andarmene quando lo stesso ragazzo e la stessa ragazza che mi avevano invitato ad entrare si fecero di nuovo avanti e mi chiesero se avevo preso il modulo per fare la domanda. Senza aspettare che rispondessi, me ne diedero due o tre copie e, sorridenti, mi dissero: “Prova, non hai nulla da perdere”.
Lunedì mattina ero in classe, al secondo piano dello stesso edificio, quando mi ritrovai in tasca i moduli. Mi annoiavo a morte a quella lezione di matematica (ho sempre odiato i numeri e la realtà rigidamente fattuale che essi rappresentano) e di nascosto cominciai a compilarne uno.
Nome, cognome, età, lingua / lingue conosciute, scuola che frequentavo … Devo confessare che se non fosse stato perché la lezione era per me un calvario non avrei mai cercato quel diversivo per ammazzare il tempo. Ero però ancora della stessa opinione: non facevo parte di quella categoria sociale che poteva permettersi di andare in America come si prendeva il treno per andare a
Torino o a Milano. Ma, ciò nonostante, grazie al mio rigetto viscerale della matematica, compilai il modulo. E, tanto per continuare per quella strada dell’irrealizzabilità, il giorno dopo lo misi in una busta e lo spedii.
Dopo una settimana ricevetti l’invito a presentarmi a Torino per il primo colloquio. Era una giornata di scuola. Dovevo andare dalla preside a chiedere il permesso. Quando Antonia Bongianino seppe di che si trattava si entusiasmò fino all’inverosimile. Io pensavo si sarebbe rifiutata, da dirigente conservatrice qual era, e invece non solo mi diede il permesso di andare al colloquio, ma mi offrì il biglietto del treno, andata e ritorno.
[“Mamma, vado in America …”].
“Cmè, folastron, ch’ët vè n’America? A pé o an bici?” [“Come, pazzerello, ci vai in America?
A piedi o in bici?”].
“Nò, nò, it lo diso pròpi për dabon … I vaggh n’America.” [“No, no, te lo dico proprio sul serio … Vado in America.”]
Alla seconda reiterazione capì che non scherzavo.
Le raccontai tutta la storia, dalla prima serata nel salone alla Lanino, alle due interviste e poi alla conferma. Le feci vedere le foto della famiglia che mi avrebbe ospitato in California.
Neppure lei mostrò emozioni. Era rimasta orfana di entrambi i genitori e duramente provata dalla vita. Accettava i grandi e i piccoli avvenimenti con rassegnazione, ma anche con la caparbia volontà di non arrendersi mai.
“A venta ch’it prepara ’n bel para dë scarpe e quàich ëstrass dë butete andòss ch’ët faghe
nen bruta figura lì an Mérica” [“Bisogna che ti prepari un bel paio di scarpe e qualche straccio da metterti addosso che tu non faccia brutta figura lì in America”].
Quello che non sapevo è che occorrevano 240 mila lire per “pocket money” che l’American Field Service mi avrebbe poi rimborsato ogni mese per le spesucce correnti. Era una cifra pari a tre volte lo stipendio mensile di Angelo. La richiesta gli era stata spedita in qualità di capofamiglia. Ero stato invece esentato da tutte le altre spese.
Angelo non me ne fece parola, se non molto tempo dopo il mio rientro dall’America.
Non avevamo quella cifra. Angelo ne parlò al suo capufficio, il quale gli disse che mai e poi mai la Manzoni gli avrebbe anticipato tanti soldi. Angelo non si diede per vinto. Andò a Milano, chiese di parlare con il direttore generale e riuscì a tornare a casa con il montante necessario al mio soggiorno.
Poi ci si mise di mezzo la burocrazia italiana. Non potevo avere dal consolato USA il visto di un anno se il mio passaporto non aveva una validità di un paio d’anni. Il distretto militare non mi concedeva il nullaosta perché in un paio d’anni ero in età di servizio militare. Angelo contattò altre famiglie di borsisti e studiò bene i regolamenti finché non riuscì ad ottenere la durata di validità necessaria per il mio passaporto. Fatto sta che la mattina della giornata in cui dovevo partire in treno da Milano per andare a Rotterdam e imbarcarmi per New York io ancora non avevo il visto per gli USA.
Per lui l’avventura americana sarebbe cominciata con la prima lettera a Mario Castelnuovo Tedesco, in cui proponeva al celebre compositore, allora residente a Los Angeles, un nuovo repertorio per la chitarra.
Angelo temeva tanto che non rispondesse. Castelnuovo non solo gli rispose a breve giro di posta, ma accolse con entusiasmo la proposta di questo sconosciuto chitarrista in Italia, inviandogli un primo spartito.
Lui che non aveva neppure i soldi per comperarsi la prima chitarra aveva aperto un nuovo capitolo al repertorio per la chitarra. Quando dieci anni dopo attraversai il grande portale secentesco di Harvard, con il tocco e la toga purpurei del dottorato in lingue e letterature straniere, mi ricordai di quei giorni in cui Angelo aveva affrontato difficoltà pressoché insormontabili per permettermi di fare una carriera accademica nelle più prestigiose università del nuovo mondo.
In inglese io lo chiamerei “a peaceful warrior”. In italiano un fratello silenzioso e tenace che non ha mai esitato a fare ogni sacrificio per il mio avvenire.
E sono sicuro che tra i suoi studenti ve ne saranno diversi che possono dire altrettanto pensando a chi, come lui, gli fu maestro non solo d’arte, ma di vita.