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KEVIN
SWIERKOSZ-LENART

“Ricordo di Angelo

Kevin Lenart
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Lo sentii pronunciare per la prima volta da Luigi Biscaldi, che venne in qualità di supplente durante il mio secondo anno di corso, in seguito alla prematura scomparsa di colui che era stato il mio primo insegnante. Fu proprio il Maestro Biscaldi a suggerirmi di iscrivermi ai corsi estivi di Châtillon, che mi avrebbero dato modo di confrontarmi con insegnanti preparatissimi con cui ho mantenuto negli anni un bel rapporto di amicizia (Piera Dadomo, Vincenzo Torricella, Gian Luca Barbero) e di conoscere lui, il Maestro dei Maestri, Angelo Gilardino. Ricordo che, arrivando nell’hotel, lo vidi subito: insegnava nel grande salone, benedetto da una splendida illuminazione, che era immediatamente antistante all’ingresso. Percepii immediatamente, pur da ragazzino quale ero, il suo magnetismo, l’aura di eccezionalità che lo caratterizzava e al contempo il desiderio quasi ossessivo di schivare il suo stesso personaggio, di smascherare l’affettazione impacciata che inevitabilmente egli suscitava nei primi approcci (“Victor Hugo diceva che Victor Hugo non esisteva, esisteva un pazzo che girava per Parigi convinto di essere Victor Hugo”).

Gli avevo portato in dono un volume nel quale era stato pubblicato un mio racconto, ma non osai darglielo. Fu Luigi Biscaldi a farsi mediatore del regalo, dicendomi successivamente che il Maestro aveva molto apprezzato il mio modo di scrivere. Per tutta la settimana non osai fare lezione con lui, presi coraggio soltanto l’ultimo giorno, facendogli ascoltare un brano di Giuliani. Gilardino mi chiese cosa pensassi di quella musica, mi spiegò come quel modo di comporre fosse figlio di un ottimismo razionalista proprio del suo tempo, ma non mi elargì quasi nessun consiglio di carattere musicale. “In tutta sincerità, non credo che farai il concertista. Tu farai altro, lo si vede dal modo in cui scrivi. Se proprio manterrai un percorso musicale, sarai piuttosto un chitarrista-filosofo, un compositore come Dusan Bogdanovic”.

Kevin Lenart: Variazioni sul Testament d'Amelia

Da quella prima volta a casa sua, le visite si fecero

regolari, facilitate ben presto dal mio trasferimento in Svizzera e dal conseguente avvicinamento.

L’amicizia incarnata non escludeva i libri, né la musica, ma includeva finalmente le escursioni nei

paesaggi che più amava, l’iniziazione alla Panissa vercellese, le scorribande fra liutai mosse dalla passione condivisa per il collezionismo chitarristico, e ancora le discussioni sui suoi quadri dei maestri piemontesi, i film visti insieme. Soprattutto, ho avuto modo di ascoltare dalla sua voce la storia della sua vita, mossa dalla fede nel senso e dalla fedeltà alla bellezza.

Una vita miracolosa, in cui un ragazzino della campagna di Asigliano, avvezzo a girar nudo fra i campi per avvicinarsi agli aironi, aveva avuto la disciplina di darsi una formazione umanistica completa, diventando un musicista capace di ispirare diverse generazioni, di muoversi agevolmente tra filologia, storiografia, musicologia, composizione e prassi strumentale, riuscendo nel frattempo a disquisire con perizia degli argomenti più disparati, inclusa la psichiatria (non dimenticherò mai quando gli parlai della mia passione per la corrente fenomenologica, ed egli mi rispose posatamente che la conosceva, avendo letto a quindici anni le “Tre forme di esistenza mancata” di Binswanger). Questa nuova frequentazione si aprì presto a delle lezioni di composizione, che egli mi impartì dal 2017 fino a poche settimane prima della sua scomparsa. Descriveva il suo approccio a quel tipo di insegnamento paragonandolo alla prassi di una bottega di mestiere, in cui si impara facendo, e il risultato è l’unica preoccupazione. Le sole nozioni di partenza necessarie, a suo avviso, consistevano nella padronanza dell’armonia, che egli dava per scontata, e in alcune riflessioni sulle basi formali del discorso musicale (inciso, frase, periodo, tema, sviluppo, forme più comuni).

Compiuta una ricognizione di questi elementi basilari, si iniziava con il lavoro. Il Maestro diceva di sé stesso, ed era vero, di mantenere un certo tatto e una delicata discrezione in tutti gli ambiti dei rapporti interpersonali, includendo in tale sfera anche la sua attività di docente di chitarra.

Angelo con il figlio Alessandro

Lo vidi personalmente l’ultima volta per i suoi ottant’anni, in occasione della meravigliosa festa che il comune di Asigliano aveva organizzato per l’importante ricorrenza.

 

Gli regalai un quadro di Ravello, il pittore prediletto. Lui mi aveva gentilmente procurato un’opera omnia di Freud, che non ero riuscito a farmi spedire in Svizzera, e non volle il denaro. “È un mio regalo per te, posso farti un regalo anch’io, no?”

Quel regalo, l’ultimo scambio fra noi, rappresenta per me la natura ultima del senso della nostra amicizia.

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Quel che sono come uomo, non solo come musicista, lo devo a lui. Persino il dono che, ingenuamente, pensai di offrirgli quel giorno, era un gesto che avevo potuto concepire grazie all’educazione artistica che egli stesso aveva guidato e supervisionato negli anni.

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Una volta gli dissi che noi avevamo avuto un rapporto autentico perché, prendendo in prestito le parole di Lacan, ci eravamo dati quel che non avevamo avuto: un sano rapporto fra padre e figlio.

Con la solita calma mi rispose:

“Hai proprio fatto centro”.

Per quanto si tratti di un’esigenza ambiziosa, non posso consegnare alle mie parole un’evocazione

del mio rapporto con Angelo Gilardino senza prima cimentarmi in un’operazione di una grandiosità e di un’ingenuità quasi infantili: tentare di definire il suo rapporto con la realtà. Dire che fosse un uomo di fede sarebbe riduttivo, perché il suo sentimento del mondo non era religioso.

Egli non aveva semplicemente fiducia nel fatto che le cose non fossero soltanto come apparivano, che questo transito terreno di circa ottant’anni, ottanta esatti nel suo caso, non esaurisse tout court l’esperienza del reale: aveva di tutto ciò, piuttosto, una percezione immediata, come di un’evidenza incrollabile.

Manteneva troppo vivi i ricordi dell’infanzia per accettare ogni riduzionismo, e del bambino aveva

sempre mantenuto la profonda capacità di percepire il mistero, di sentirsi precipitato qui da un altrove. Se proprio si deve ascrivere tale attitudine ad una qualche forma di fede, si può forse dire che egli avesse fede nel senso, e che la forma artistica fosse per lui il più fedele ritrovato tangibile di quel senso della realtà quasi inafferrabile.

Voglio allora cercare, in breve, di tratteggiare quel che sia stato il senso del nostro incontro e della nostra amicizia. Mi avvicinai alla chitarra da bambino, a 11 anni, per essere successivamente ammesso in Conservatorio, a Santa Cecilia, all’età di 14. Per una strana cabala fonetica, il mio primo Maestro si chiamava Gilardi, mentre il primo concertista che ebbi modo di ascoltare dal vivo era Giraldi. La compiutezza di quel nome, Gilardino, sembrava quasi chiamarmi.

Dusan Bogdanovic

Anni dopo, quando pubblicai la mia prima composizione mentre studiavo con lo stesso Gilardino e con Bogdanovic, mi dissi che quella profezia era stata una delle innumerevoli prove della sua eccezionalità che avevo potuto collezionare nel corso di una lunga amicizia. Durante la stessa lezione, mi parlò a lungo de “Il Maestro e Margherita” di Bulgakov, insinuando in me la curiosità di leggere il romanzo.

Di ritorno a Roma, divorai il libro e gli scrissi una mail con le mie impressioni, i miei ringraziamenti, e la richiesta di altri consigli. Mi rispose suggerendomi di leggere Landolfi. Quell’anno, l’anno del mio quinto ginnasio, saltai circa due mesi di scuola accampando scuse varie, e lessi in nove mesi un’ottantina di libri consigliati da lui. Uno ogni tre giorni, in media. La mia visione del mondo si è formata in quell’anno. Continuammo a corrispondere senza mai rivederci, fin quando egli venne a Roma per una masterclass.

Avevo ventiquattro anni, mi approssimavo al diploma di Conservatorio e alla laurea in medicina. A lui non interessava minimamente farmi lezione, pur sapendo che portavo la sua Sonata del Guadalquivir all’esame finale.

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Gli interessava che stessi con Alessandro, suo figlio, per vedere se la nostra amicizia fosse pronta ad uscire finalmente dall’etere della musica e della letteratura per incarnarsi. Passammo del tempo assieme, iniziò quel giorno la mia lunga amicizia con Alessandro, e finalmente il Maestro mi invitò ad andare a casa sua a Vercelli per aiutarmi a mettere a punto il repertorio che avrei portato all’esame.

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In effetti, non mi aveva mai corretto bruscamente quando mi aveva ascoltato suonare.

Ma, sulla composizione, no. Lì era essenziale non metter filtri e parlare senza mezze misure. La sua cura maggiore, quando stimava che un pezzo fosse buono, era riservata alla forma: dosare opportunamente i registri, non diluire inutilmente il discorso musicale in un affastellarsi di battute ridondanti.

Se un pezzo era inutile, lo bollava come un cadavere ed invitava a non perderci tempo. Sulla composizione egli toccava l’apice della sua autenticità, della sua parresia come ebbe a dire l’amico Sergio Givone commemorandolo, e se da una parte amava dileggiare una melodia particolarmente ingenua (“Potresti intitolarla in modo esotico: “Eine grosse puttanaten”!) era anche capace di dire, a me come ad altri allievi, “Questa sezione è meravigliosa, te la invidio, vorrei averla scritta io”.

Negli ultimi anni il nostro rapporto vide una progressiva inversione di ruoli, come accade alle relazioni genitoriali compiutamente riuscite. Era stato il mio Maestro, amico, mentore, fui in qualche occasione il suo medico e il suo sostegno nelle innumerevoli faccende pratiche che inevitabilmente aggiungono fastidi alla malattia.

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Alessandro Gilardino Nicodemi: paesaggio
Alessandro Gilardino Nicodemi
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Foto: ANDREA CHERCHI
 

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