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ENRICO DEMARIA
“Una lezione con Angelo

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Le lezioni individuali di chitarra classica di Angelo Gilardino per gli allievi dei Liceo musicale “Viotti” si tenevano il sabato pomeriggio al secondo piano del teatro Civico, con l’ingresso un po’ più a destra di quello principale, dove oggi si accede per entrare (ma al primo piano) alla Società del Quartetto, all’Accademia di danza e al Museo del Civico.

Ero diventato allievo di Angelo a tredici anni (lui ne aveva ventiquattro) e gli davo del “lei” come si conveniva tra un maestro e l’allievo. Mi aveva portato da lui un anziano chitarrista, Carluccio Fornasino che, tra l’altro, era stato uno  dei due unici “musicanti” vercellesi - l’altro era il sarto Michele Ferrino - a cui Angelo si era rivolto, giovanissimo,  per avere i primi rudimenti sulla tecnica chitarristica dopo l’incontro fatale, a Modena, con Ida Presti.

Mio papà, che era un eccellente paroliere di canzoni, non era mai riuscito a suonare decentemente la chitarra, aveva deciso che doveva toccare a me colmare quella lacuna familiare. E così l’impiegato dell’Ufficio metrico, erborista e soprattutto rinomato chitarrista delle mandolinistiche Carluccio Fornasino era piombato nella mia vita. I miei genitori mi comprarono una Eko rossa e nera con le corde di metallo nel negozio “Belli” di corso Libertà e Fornasino mi suggerì l’acquisto del metodo per chitarra Carulli. 

Abitavo ancora in una vecchia casa di corso Libertà, proprio di fronte al Caffè Marchesi, oggi completamente ristrutturata. Fornasino veniva a farmi lezione, anche di solfeggio, una volta ala settimana. Quando arrivammo all’ultimo pezzo del primo Carulli un “Rondò poco Allegretto”, Fornasino mi disse: “Non ho più niente da insegnarti, adesso ti passo al maestro Angelo Gilardino, molto più bravo di me”.

Combinò l’incontro il farmacista Duccio Ravera, oggi quasi novantenne, nella sua bellissima casa di via San Paolo. Era sera. Mi presentai con la mia Eko, e con molta soggezione di questo nuovo maestro. Era un giovane alto, con i capelli lunghi e lo sguardo che ti leggeva. Suonai ovviamente Carulli e l’esame, non so come, fu passato. Gilardino mi disse di iscrivermi al Liceo Viotti e mi passò subito una sua chitarra, una “Pasqualon”. Incominciai a frequentare la scuola del professor Robbone e nel giugno del 1967, diedi anche un saggio, nel salone di via Monte di Pietà, proprio davanti al “Civico” allora sede del “Quartetto”, oggi della Fondazione Cassa di Risparmio, suonando due Preludi di Sor e un Capriccio di Carcassi.

Circa un anno dopo, alla lezione del sabato pomeriggio, Angelo mi dice: “Non tirar fuori la chitarra dal fodero, e stai a sentire”. E mi parlò. La sera prima, proprio al Civico aveva visto “2001 - Odissea nello spazio”. “E’ un film di cui si parlerà per cento e più anni”. E anziché ascoltarmi nella Bourré di Bach, incominciò a raccontare (da par suo) degli ominidi che si fronteggiavano, nell’”alba dell’uomo”, a grugniti e ad agitare di zampe, fino che non arrivò il monolito nero, ed una delle scimmie che l’avevano toccato, con molta circospezione, ebbe l’intuizione di afferrare l’osso di un animale morto e di uccidere un’altra scimmia con cui era entrata in disaccordo.

“Devi andare subito a vederlo”.

“Ma lo capirò, maestro?”

“Non importa se lo capirai, ma imprimitelo ben ben nella mente, più avanti lo capirai”.

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Naturalmente lo feci, ma colsi poche cose, anche se vidi il monolito tagliare per largo i pianeti. Passarono gli anni, da allora l’avrò rivisto una ventina di volte, e quando lo guardo, penso  ad Angelo e alla sua profezia: “Di questo film si parlerà per sempre”.  Naturalmente, aveva ragione.

 

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2001 Odissea nello spazio
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Incominciò da lì. Io ero appassionato di cinema, andavo tutte le settimane, di pomeriggio, a vedere i western al “Corso” e mi feci coinvolgere dal racconto di Angelo che lo appassionava: evocò gli astronauti che, milioni di anni dopo, sulla Luna, al riapparire del monolito, si comportarono nello stesso modo delle scimmie. E poi il viaggio verso Giove dell’astronave Discovery con il Computer HAL 9000 che impazzisce e cerca di sabotare la missione; la lotta fra il comandante dell’astronave, David Bowman, e HAL, conclusa con la smemorizzazione di quest’ultimo; quindi il viaggio del comandante, tutto solo, sulle note di Ligeti, verso l’ultimo incontro con il monolito in una stanza stile Luigi XVI nata in chissà quale universo, e il ritorno verso la Terra di David, morto e rinato come feto.

 Nel raccontare, Angelo si infervorava. Mi parlò del monolito che, in una particolare immagine creta da Kubrick (che poi andai sempre a ricercare, quando vidi e rivoidi il film), tagliava trasversalmente un gruppo di pianeti allenati in senso verticale, a formare il simbolo della Croce. 

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Foto: ANDREA CHERCHI
 

2001 Odissea nello spazio
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