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MARCO TULLIO GIORDANA
“Angelo Gilardino Trimegisto”

Mrco Tullio Giordana
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Abitando così distanti non sarebbe stato agevole rimanere assidui se non avessimo coltivato uno scambio epistolare quasi quotidiano, talvolta con due o tre mail al giorno quando si scopriva qualcosa su cui era troppo importante sapere come l’altro la pensava.

Da adolescenti è abbastanza facile che l’amicizia completamente disinteressata si accenda come un fuoco basandosi su affinità e propensioni comuni. Diventa semmai difficile conservare queste amicizie furiose, strappandole agli anni che passano e alle svolte della vita che allontanano anche chi si è giurato fedeltà eterna (la cesura della morte da ragazzi è quasi impossibile immaginarla).

Impossibile poi fare amicizia nello stesso modo quando si diventa adulti. Più spesso sono relazioni nate dal lavoro, anche importanti, anche affettivamente coinvolgenti. Ma è difficile lasciarsi prendere come succedeva da ragazzi, avere il bisogno quasi fisico del contatto quotidiano, anzi H24 come si dice oggi nel gergo scurrile. 

Con Angelo era capitato proprio questo: di diventare amici come due ragazzacci del liceo che potevano commuoversi davanti a un quadro di Bacon e subito dopo compiacersi di aver centrato con la fionda una vetrata. Siamo stati perciò compagni di una scuola immaginaria che ci preesisteva e che ha creato le fondamenta di curiosità sempre nuove, anche se capitava, nemmeno infrequentemente, di non pensarla affatto nello stesso modo.

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D’altronde, giovanissimo, proprio i servizi lo avevano avvicinato per arruolarlo e così assicurarsi l’apporto di un’intelligenza che avrebbe saputo dare frutti anche lì. 

Si divertiva a rievocare quell’episodio e immaginare una carriera tutta interna alle “barbe finte” anche se mai avrebbe potuto prestarsi a mene, ricatti e provocazioni. Pur avendo poca stima della politica e delle nostre classi dirigenti, non dubitava dei valori sui quali è fondata la nostra comunità né della responsabilità personale del singolo, socraticamente rispettoso della legge anche quando ingiusta o inadeguata. 

Da ultimo resta da dire che una fede non dogmatica né formale lo ha sempre accompagnato in ogni difficoltà facendo scorgere in esse il segno di una predestinazione e di una trascendenza che ha sempre saputo accogliere e accettare.  Questa forse è cosa che più mi manca di lui perché ne sono completamente sprovvisto.

Io, che tenevo in mano una fiaccola spenta, vedendo la luce della sua me ne sentivo confortato.

Nel ricordare Angelo Gilardino e la nostra purtroppo breve amicizia mi sono imposto di non lasciarmi andare al rimpianto per quanto questo sia il sentimento che si attacca ogni volta che penso a lui. Troppi sono i momenti in cui l’istinto sarebbe di scrivergli o telefonargli, tanto era frequente   prima   l’abitudine   di   sentirsi   anche   per   cose   minime,   perfino   ridicole.   

Chi lo ha conosciuto sa come l’umorismo, anzi una vera contagiosa ilarità, fosse una sua caratteristica inestricabile dal resto delle qualità, parlo di quelle umane, non tanto di quelle musicali, dato che la mia inadeguatezza a seguirlo poteva giusto farmi volgere a lui con ammirazione, non certo con fratellanza di discipline. 

Abbiamo cominciato a frequentarci, dapprima in forma epistolare, poi con l’abitudine di scambiare visite vicendevoli, nel marzo del 2013, quindi esattamente dieci anni fa. In

questo decennio posso dire di aver “approfittato” senza ritegno della sua disponibilità e della generosità con cui ha elargito le sue immense cognizioni come un vuoto a perdere, dato che non sarei mai stato in grado di farne buon uso come un allievo o comunque qualcuno che avrebbe potuto metterle in pratica. Credo di aver contraccambiato in maniera assai insufficiente con quel che sapevo del mio mestiere o delle arti predilette da entrambi: la pittura innanzi tutto, subito seguita da poesia e letteratura. 

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Di queste mail, che conservo religiosamente ma che esiterei a rendere pubbliche per l’asprezza di molti giudizi suoi e miei, mi colpiva sempre una cosa: l’eleganza dello stile, l’uso superbo dell’italiano   e   la   disinvoltura   con   cui   s’era   rapidamente   impadronito   delle   principali   lingue straniere   (dono   evidentemente   di   famiglia   visto   che   il   fratello   Sergio,   linguista   e   scrittore, padroneggia le lingue germaniche, lo slavo, il russo, lo spagnolo, il neoellenico e l'ebraico, oltre ovviamente all’inglese e al francese parlati nella lunga permanenza in Canada), una cultura che, malgrado Gilardino stesso la definisse “da autodidatta”, andava molto in profondità e non aveva mai nulla di dilettantesco o orecchiato. Considero preziosi certi libri che mi ha consigliato e alcuni filosofi, fra i quali il prediletto Pavel Aleksandrovič  Florenskij, che da quel momento sono diventati indispensabili compagni di strada. 

 

Si parlava anche molto di cinema, come c’era da aspettarsi, e Angelo si dimostrava molto interessato, oltre che all’aspetto artistico e alla figura di registi e attori leggendari, all’anamnesi dei meccanismi di produzione avendo ben compreso come tutto fosse in rapida evoluzione dopo la comparsa e il rapido affermarsi della rete e suoi nuovi idoli, trovandovi forse rime con quanto accade anche nel mondo musicale: il rischio dell’uniformità e di un gusto schiavo delle mode. Ma su questo  credo che i musicisti possano dire meglio di me e con più competenza e autorità.

Ci accomunava la passione per la liuteria, alla quale Gilardino ha dato studi preziosi; tanti sono stati gli strumenti trovati e studiati assieme. Mi dispiace immensamente non aver realizzato un libro, per il quale avevamo già raccolto molto materiale, estensione delle sue ricerche sulla liuteria italiana.  Scherzando chiamava  “Spectre” il mio archivio costruito in anni di  studio solitario incrociando dati di diversa provenienza e testimonianze (e immagini) tra le più disparate, proprio come l’archivio di un servizio segreto. 

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Foto: ANDREA CHERCHI
 

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