SERGIO GILARDINO
“преступление и наказание
Prjestupljenje i nakazanje
(Delitto e castigo)”
Non ci vedeva più tanto bene e a volte acciuffava il ragazzo sbagliato. Fuori erano sberle e calci, dove capitava capitava; poi, tutta calma e composta, rientrava, lasciando il punito dov’era, come se nulla fosse. Era a posto con la sua coscienza e convinta di aver fatto il proprio dovere.
La direzione sapeva che i maestri ci picchiavano: era parte ammessa della didattica a quei tempi, ma i pestaggi fuori classe andavano ben oltre i limiti del consentito. La maestra era un problema per i suoi superiori, un incubo per noi.
Poi ci fu l’incidente con Micheletti.
Ripetente più volte, era un gigante, ritardato di mente, ma dolcissimo di carattere. Non parlava. Sorrideva, con tutti e con nessuno, guardando in alto, chissà verso chi, verso che cosa. Sorrideva al mondo: era felice di esserci.
Quella mattina la maestra ci proibì di fare merenda. Micheletti non aveva inteso. Con molta calma, senza nascondersi (sedeva da solo nell’ultima fila), tirò fuori il suo bel panino alla mortadella e cominciò a mangiare. La belva non tardò ad accorgersene. Gli saltò a collo come un animale da preda, gli sbatté il panino per terra e cominciò a trascinarlo verso la porta. Aveva fatto male i suoi calcoli: Micheletti pesava quanto lei, se non di più. Il panino buttato a terra fu per quel dolce gigante un’inspiegabile crudeltà.
Il maestro, già fin da subito, si presentò come la persona più amichevole e più conciliante che avessimo mai visto. Naturalmente diffidavamo dalle apparenze. La maestra era stata una lezione da non scordare mai più.
Ma, giorno dopo giorno, Giovanni Rosso dimostrò di essere un insegnante ben diverso da tutti gli altri: non diede mai uno scappellotto ai ragazzi e solo in caso di gravi, reiterate infrazioni, parlando sempre con voce pacata, si rivolgeva non soltanto all’interessato, ma all’intera scolaresca, chiedendo a tutti, da pari a pari, un’opinione.
A poco a poco riuscì a coinvolgere in questo dialogo anche i più discoli e i più recidivi. Sapeva leggere nelle nostre menti e vinceva la dura battaglia della disciplina scolastica con l’irresistibile arte della persuasione.
E poi c’era la magia dei suoi disegni. Poteva fare alla lavagna il cerchio a mano libera e a tracciarne dentro, subito di seguito, un secondo, perfettamente concentrico. Con pochi tratti di matita riproduceva i nostri volti su grandi fogli da disegno. Non contento, vi sovrapponeva, velocissimo, alcuni ritocchi, trasformandoci in buffe caricature.
Ci aveva conquistati. Sotto la sua guida imparammo ad usare per bene matite e pastelli, guardando con occhi nuovi, più attenti ai dettagli, gli oggetti attorno a noi.
Micheletti non fu più lasciato da solo nell’ultima fila. Veniva ora messo accanto ai più bravi, a turno: lui, che non aveva mai usato penna o matita, incominciò a fare dei disegni tanto fantasiosi quanto enigmatici. Era il suo modo di aprirsi ai suoi compagni e al mondo.
Dopo una settimana avevo letto e riletto il libro. Ero pronto. Lo dissi al maestro e lui, con tanta semplicità, annunciò ai miei compagni che avevo una storia da raccontare.
La naturalezza e la facilità con cui feci la mia prima “prolusione” fu una grossa sorpresa per tutti, me per primo. Mi ero talmente immedesimato nel racconto che le parole mi uscivano spontanee dal cuore, nitide e infervorate. Mi commossi più d’una volta, ma si commossero anche loro, i miei compagni. L’ultimo della classe, il “mutino”, aveva ritrovato la voce.
Senza nemmeno chiedermi se ero pronto per altre prove, il maestro, visto l’esito della prima, annunciò: “La settimana prossima Sergio ci racconterà un’altra bella storia”. E mi mise tra le mani L’isola del tesoro di Robert Louis Stevenson.
Fu un meraviglioso viaggio ai confini dell’infinito. Passavo le ore a fantasticare, senza neppure ricordarmi di mangiare. Leggevo e rileggevo quelle pagine, fino ad impararle a memoria. Questa volta, dopo la presentazione, si aperse spontaneamente il dialogo sulle vicende del giovane mozzo in preda alla ciurma degli ammutinati. In classe le ore passavano senza che ce ne accorgessimo e la campanella di fine lezione suonava sempre troppo presto, quando noi eravamo ancora nel bel mezzo di un’avventura su isole e mari lontani.
Insieme al maestro decidemmo di leggere l’intero libro in classe, ad alta voce. Io, però, dovevo continuare a fare le mie presentazioni sui libri che lui via via mi procurava. Seguirono Robinson Crusoe di Daniel Defoe, I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, I tre moschettieri di Alexandre Dumas, Le avventure di Oliver Twist di Charles Dickens, Ventimila leghe sotto i mari e Viaggio al centro della terra di Jules Verne, Le tigri di Mompracem di Emilio Salgari.
Quei libri e quelle presentazioni mi trasformarono radicalmente. Diventai una persona nuova.
Leggendo i miei temi e osservando con particolare attenzione come disegnavo e come mi approppriavo dell’ortografia, il maestro Rosso era giunto alla conclusione che le bocciature passate e l’isolamento presente erano stati frutto di un madornale errore didattico. Quei libri, comperati a sue spese, e le presentazioni in classe, gliene avevano dato la conferma. Non si era sbagliato.
A scuola finita l’ultimo suo dono per me fu un dizionario della lingua italiana.
I romanzi per ragazzi me li aveva regalati, uno per volta, il maestro Giovanni Rosso.
All’inizio di novembre la nostra maestra si era ammalata e allora era venuto lui a sostituirla per qualche giorno. La maestra però non era più tornata. Tra noi, ragazzi della quinta, nessuno la rimpianse, anzi…
Coi capelli bianchi ben pettinati, raccolti a crocchia dietro la nuca e il volto sempre sereno, si presentava come la personificazione dell’ insegnante paziente e materna. In classe però si trasformava completamente. Quando trovava un ragazzo “in castagna” (magari parlocchiava col vicino, o passava un biglietto, o ridacchiava di sottecchi, o aveva perso il segno nella lettura ad alta voce) la belva in lei si scatenava.
Non urlava: rugghiava, come un animale inferocito. Dalla predella della cattedra con due salti si avventava sul malcapitato, lo afferrava per i capelli, lo sollevava e lo trascinava fuori della classe, a peso morto. Dove trovasse alla sua età la forza fisica per agire in quel modo era un mistero.
Si svegliò di botto dal suo letargo edenico e fissò lo sguardo su di noi, sulla classe: lucido, sgomento, come se fosse la prima volta che ci vedeva. Il perenne sorriso gli era sparito dal volto. In un agghiacciante valzer di strattoni e spintoni erano arrivati allo stretto passaggio della porta, dove rimasero incastrati (una delle due ante era bloccata).
La maestra, paonazza in volto, con la bava alla bocca, bofonchiava non si capiva bene cosa. Con un solo spintone Micheletti se la scrollò di dosso e la lasciò lì, aggrappata allo stipite, sfinita dallo sforzo. Si accasciò sul pavimento, con delle spasmodiche convulsioni al volto e dei singhiozzi che le scuotevano il petto. Il gigante buono ritornò docilmente al suo posto, raccolse da terra il panino e riprese a mangiare. Gli era ritornato il sorriso sul volto.
Noi eravamo come impazziti. Tutti in piedi -alcuni erano addirittura saliti sui banchi -urlavamo all’unisono: “Dài, Micheletti, dài, dài”, lanciando grida di gioia e battendo mani e piedi. Micheletti ci imitò, tenendosi ben stretto il panino riconquistato con tanta fatica.
Non aveva capito che il tripudio era tutto per lui, ma vi partecipava con ingenua, innocente esuberanza.
Poi, un giorno, una mamma il cui figlio era tornato a casa malconcio, si presentò a scuola per parlare con la maestra, che le rispose in malo modo. Da lì a qualche settimana uno sconosciuto l’aspettò di sera nel vicolo dove viveva e la picchiò di santa ragione.
A scuola non era più tornata, non per l’influenza, ma per le percosse ricevute. Non ci furono denunce. La direzione chiuse il caso, archiviandolo come “malattia a lunga degenza”.
Sui quaderni di quinta, con le righe-guida azzurrine appena visibili, il maestro ci fece vedere qual era l’altezza giusta delle L in rapporto alle T e alle D. Mi invaghii di quella grafia chiara e ben equilibrata, facile da leggere, snella, che registrava le parole scritte come se fossero scolpite nella memoria anziché vergate sulla carta.
A poco a poco la scuola, da luogo di paura e di coercizione, divenne un ambiente sereno, disteso, in cui ciascuno cercava di fare del proprio meglio, condividendolo con gli altri. Nacquero numerosi progetti, che poco a poco facevano emergere le nostre vocazioni latenti.
Io, che negli ultimi due anni ero rimasto chiuso in un mutismo ostinato (ci eravamo nel frattempo trasferiti dalla campagna in città), incominciai ad aprirmi.
Un giorno il maestro mi prese da parte e, con mia grande sorpresa, mi parlò in piemontese: “It deve pa sagrinete e avèj gen-a a doverté la boca mach përchè ch’it pense da nen essi bon da parlé l’italian. Ti it peude amprend-lo mej che j’àuti” [Non devi crucciarti e sentirti imbarazzato perché pensi di non essere capace di parlare l’italiano. Puoi impararlo meglio degli altri].
Il giorno dopo mi portò un libro e mi disse: “Perché non lo leggi a casa e, poi, se ti sarà piaciuto, lo racconti ai tuoi compagni?”. Il libro s’intitolava I ragazzi della via Pál di un certo Ferenc Molnár.
A casa c’erano forti tensioni e il libro, avvincente da subito, con quei ragazzi uniti dalle battaglie contro la banda dei giardini botanici, mi avvolse come in un bossolo protettivo: mi rinchiudevo al suo interno, dimenticando il resto del mondo.
Non aveva ancora vent’anni, ma usava molto più giudizio di un ventenne. Molti padri, quarantenni e cinquantenni, non avrebbero saputo gestire tanti incidenti di percorso con altrettale accortezza. Senza farlo vedere, a suo modo mi voleva bene e, soprattutto, voleva il mio bene.
Se aveva aspettato a farmi quel dono - mi spiegò molto tempo dopo, durante uno dei miei brevi rientri dal Canada - era per accertarsi che quella che lui voleva incoraggiare fosse davvero la mia vocazione, scelta da me.
Non intendeva spintonarmi o condizionarmi in alcun modo. In quell’occasione mi mise tra le mani un libro della popolare collana B.U.R., con una dedica (l’unica, se ben ricordo, che mi abbia mai fatta): “Per il quindicesimo compleanno di Sergio, con l’augurio che sia l’inizio di tante buone letture”. Il libro era un romanzo di Fiodor Dostojevskij, “Delitto e castigo”.
A tutta prima non ci capii gran che. Cercavo avventure e mari del sud. Ero deluso e spaesato, ma la dedica di Angelo mi forzava a ritentare, riprendendo la lettura dalle prime pagine finché, d’improvviso, trovai il bandolo della matassa. Non posai più il libro fino a quando non ebbi voltato l’ultima pagina.
Era come se un ponte levatoio si fosse abbassato e le grandi porte della città proibita si fossero spalancate. Ero entrato in un mondo del tutto nuovo, di cui non avevo mai sospettato l’esistenza. Ora capivo il potere della parola e la funzione dell’opera d’arte letteraria. Sulla scia di quella lettura scoprii i romanzieri russi, poi i francesi e infine gli americani. Proprio come i libri del maestro Rosso – che, tra l’altro, mi avevano iniziato alla difficile arte di parlare in pubblico – così pure il dono di Angelo mi trasformò da cima a fondo e segnò la mia definitiva conversione agli studi letterari.
Poi vennero alcuni anni di fiacca.
A quell’epoca non c’erano ancora tanti libri per l’età intermedia: ero rimasto senza dialogo, senza riferimenti. Avevo letto e riletto i romanzi del maestro fino a logorarli, ma oramai ero troppo grande per i libri dei piccoli e troppo piccolo per quelli dei grandi.
Fu a questo punto che Angelo intervenne.
Era il 21 settembre del 1960, il mio giorno del mio quindicesimo compleanno.
Anche lui, senza farsi notare, mi aveva tenuto d’occhio. La sua era una presenza vigile, ma non percepibile, operativa senza essere oberante. Non mi aveva mai fatto pesare la sua autorità, in nessun modo. Per gli studi io non avevo bisogno di richiami: mi piaceva imparare e i miei voti a scuola lo dimostravano.
C’erano però - com’è normale nell’adolescenza - dei piccoli “sbandamenti”. All’occorrenza, proprio come il maestro Rosso, per rimettermi in carreggiata usava anch’egli l’arte del dialogo, che applicava con maestria.
Di tanto in tanto, quando la mamma non era a portata d’orecchio, mi chiedeva come andavano le cose e poi, al momento giusto, ci infilava una delle sue frasi sornione: “ … ma non pensi che in quel caso lì forse sarebbe meglio … ?”, oppure “… io, se fossi in te, farei diversamente, tu cosa ne dici? …”. Prima o poi finivo anch’io col vedere le cose sotto il lume della ragione.
Alla fine mi rinsavivo e, senza dire nulla, gli lasciavo capire che mi aveva persuaso.
Da quel momento in poi lui, che era sempre stato restio a parlare di letteratura, condivise con me i suoi pareri: aveva già letto la maggior parte dei romanzi che io ora leggevo per la prima volta e le sue interpretazioni mi aprivano orizzonti vasti, inesplorati. Possedeva un’intuizione sbalorditiva e riusciva a collegare personaggi delle letterature più disparate in un unico quadro interpretativo. La sua prodigiosa memoria gli era di valido aiuto.
In letteratura Angelo è stato la mia guida, il mio vero maestro. Lui, che aveva interrotto gli studi, aveva letto e capito diecine e diecine di opere di poesia e di prosa, con sicura intuizione dei valori estetici in gioco.
Secondo Angelo, la letteratura, come la musica, si componeva e si interpretava per intuizioni. La forma si poteva lisciare all’infinito, ma l’intuizione doveva essere limpida, chiara, sostanziale fin dal suo primo concepimento.
Aveva composto diverse delle sue musiche sullo stato d’animo suscitato in lui da opere letterarie, trasferendo le suggestioni di lettura direttamente sul pentagramma.
Io finii col diventare docente di letterature comparate, ma il vero comparatista era sempre stato lui, anche se di mestiere si occupava di suoni e non di parole. Ben di rado, più tardi, nelle aule delle più prestigiose università nordamericane, avrei incontrato menti così spiccatamente vocate ad afferrare la gloria e la miseria della condizione umana.
Angelo mi fece dono di quel libro e di tutto quello che sapeva: ancora oggi, dopo più di mezzo secolo, continuo a mettere a frutto i suoi insegnamenti. Non credo proprio di averlo uguagliato, ma ho fatto buon uso delle sue lezioni.
Il mio più grande debito verso Angelo tuttavia era, e rimarrà, quel libro offertomi per il mio quindicesimo compleanno: aveva capito che potevo entrare a far parte della ristretta cerchia di coloro che dedicavano e, se necessario, sacrificavano l’intera vita per perseguire un ideale.
Sul retro della pagina di riguardo del romanzo di Dostojevskij c’era la translitterazione del titolo originale dell’opera: Prjestupljenje i nakazanje.
Il libro mi era talmente piaciuto che decisi di imparare quella lingua che per me, allora, era ancora del tutto misteriosa. Racconterò poi la rocambolesca serie di avventure per le quali sono poi passato per apprenderla.
Non penso che mio fratello, per lungimirante che fosse, avesse previsto fino a che punto mi sarei spinto per seguire i suoi consigli, ma di certo mi aveva fornito la visione, la guida e i mezzi per farlo.